bollino ceralaccato

Etica del Dialogo

Un breve saggio per proporre, condividere e, soprattutto, applicare pragmaticamente nella Vita professionale e personale una possibile Essenza dell'Umano: il Dialogo. Con Obiettivi della Proposta condivisi in incipit. Una possibile essenziale distinzione rispetto alle nuove "intelligenze al silicio"...?

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OBIETTIVI della Proposta:

  • Coniugare le esigenze di una etica normativa con le più evolute ricerche filosofico-linguistiche.
  • Ridare una oggettività ( post-moderna ) all’etica.
  • La filosofia come motore del dialogo.
  • Garantire una influenza più diretta e tempestiva delle ricerche filosofiche nella vita quotidiana (fall-out filosofico) - nelle aziende, nella scuola.
  • Una proposta di un nuovo Ecumenismo.

 

                                                                                   «In Filosofia la comprensione della domanda                                                                                        è spesso più importante e decisiva del                                                                                                contenuto delle possibili risposte.»

                                                                          Umberto Galimberti (1989, p. 55)

 

  La domanda di etica rivolta dalla società degli individui agli apparati politico-amministrativi, ai comitati scientifico-filosofici, alle istituzioni religiose evidenzia il contatto ormai raggiunto tra la prima e questi centri di conoscenza e potere una volta tra di loro incommensurabili.

 

  La capacità odierna degli individui di commensurare il proprio pensiero con quello di meta-individui (appunto, istituzioni e poteri) è derivata dall’incrocio di due tendenze ormai ben delineate e ancora in corso:

a)    nichilismo: l’indebolimento di tutte le categorie forti (Metafisica, Religione, Scienza), detentrici di una qualche “verità”, avviata dall’opera di «trasvalutazione di tutti i valori» del padre della cultura del XX sec:  Friedrich Nietzsche.

b)   divinizzazione: l’innalzamento dell’Individuo da essere sottomesso a volontà esterne, incuranti e indifferenti al suo destino, a pretendente al trono di Dio dopo la “morte” di quest’ultimo annunciata sempre dallo stesso «pazzo vivente» (autodefinizione di F. Nietzsche in Umano troppo Umano, vol. I, 1990, p. 168).

 

 Il contatto tra queste due tendenze cortocircuita i due contesti e i relativi paradigmi, le relative etiche, instaurando un flusso, talvolta dirompente, di dialogo; soltanto dalla comprensione del linguaggio del meta-individuo, l’individuo saprà misurare il significato delle sue dichiarazioni, delle sue azioni e rapportarle alle proprie.

«L’uomo, crescendo ad altezza titanica, si conquista da sé la propria civiltà, costringendo gli dèi ad allearsi con lui. » (F. Nietzsche, 1994, p. 67).

 

  Precedentemente, la distanza tra gli uni e gli altri impediva una “comunità” di linguaggio e di concetti tale da permettere una mobilità di pensieri veicolati dal dialogo.

  Voltaire, ‘il tollerante’, definiva il popolo canaille, e non poteva essere altrimenti: non si capivano, non potevano commensurare i propri linguaggi e pensieri.

 

  Individui isolati, capaci di instaurare un flusso di opinioni, di dialogo con meta-individui, sono sempre esistiti, ma la massa culturale era insufficiente per turbare l’equilibrio statico dei detentori della conoscenza, quindi del potere  (Scientia est potentia - Bacone).

  Laddove cultura evidenzia la capacità di misurare se stesso con la diversità (con l’Altro, con il “Tu”), e come tale di accettarla, la massa culturale critica è rappresentata dalla quota di popolazione con sufficiente livello culturale da (osare) misurarsi con i detentori delle “Verità”, della «conoscenza del Bene e del Male».

  Purtroppo per noi - viste le conseguenze inflitte all’Umanità tutta … - Adamo ed Eva, nel cogliere il frutto che avrebbe dato loro la conoscenza del bene e del male, non avevano tale massa culturale critica: non era neanche loro la cultura capace di misurarsi con Dio, bensì …del serpente!

 

  Oggigiorno la società degli individui ha raggiunto un sufficiente peso specifico culturale e un numero di elementi tali da comprimere qualsiasi possesso apodittico di Scientia o di Potentia, rivendicando anzi un flusso a proprio favore di tali valori attraverso un dialogo serrato.

  L’elevato peso specifico culturale dei meta-individui, rappresentati da pochi elementi, viene controbilanciato da quello mediamente inferiore della società degli individui, rappresentata però da numerosi elementi.

 

  L’equilibrio statico viene quindi sostituito da uno dinamico costituito da un sistema di “contrappesi” culturali capace di instaurare un’oscillazione del flusso di domande, di richieste e di dialogo.

  Il Potere interpella la Società degli  Individui attraverso referendum, sondaggi, l’auditel

  La Società degli Individui interpella il Potere nelle assemblee, sui giornali, nei talk show

 

  Ma l’attuale linea di intersezione determinata dai loro piani culturali non rappresenta necessariamente un  arrivo, una fine, anzi, come accennato sopra, le due tendenze sono ancora in corso e non è difficile intravedere «oltre la linea» - come direbbe E. Jünger - un nuovo territorio nel quale nichilismo e divinizzazione completino e superino le loro fasi evolutive in un nuovo reciproco equilibrio.

  Lo sviluppo prodigioso di un fenomeno assolutamente spontaneo, non pianificato e, soprattutto, non controllato qual è Internet rappresenta già il passaggio «oltre la linea» che normalizza e assicura l’instabilità, e il conseguente «svanimento», delle verità, delle etiche e dei valori assoluti messi in discussione dal dialogo tra la società degli individui e i poteri che su di essi si fondano.

  Tutte le informazioni vengono diffuse - ancora potenzialmente oggi - a tutti; la discriminazione quindi tende a zero; i tempi di diffusione delle stesse tendono a zero; la soglia minima di informazione efficacemente ed economicamente inviabile tende a zero.

  Il processo nichilistico entra nella sua fase più pervasiva, permeando anche l’informazione e la comunicazione con le categorie che le sono proprie della  «riduzione» (al «punto zero») e dello  «svanimento» (E. Jünger, 1995, p. 74).

  Anche il processo di divinizzazione prosegue geometricamente la sua corsa; se Galileo faceva presente che l’Uomo poteva conoscere intensivamente come Dio, ma non estensivamente, ebbene: Internet rappresenta una sfida all’estensione delle conoscenze che la società degli individui può condividere con i poteri (con Dio …).

  Internet senza limitazioni - come coerentemente sentenziato dalla Corte Suprema americana nel Giugno di quest’anno - crea la prima vera Agorá dopo quella originaria ateniese (peraltro limitata agli uomini liberi, liberi dal lavoro in virtù della esistente schiavitù….!), con apertura di un dialogo senza limitazioni geografiche, economiche, morali e moralistiche (vedi le recenti dispute su ‘pornografia sì/pornografia no’ in rete), fino a oggi sfruttate a vantaggio del Potere.

  La scientia condivisa reclama a voce alta la potentia!

 

ETICA

 

  L’etica stessa viene rivendicata come oggetto di dialogo da parte della società degli individui, e non più subita come normativa fiorita nella notte dei tempi sull’albero della conoscenza del bene e del male che altri coltivano.

 

  L’etica rappresenta il “luogo” delle possibilità ammesse, una “geografia” dei territori percorribili, nonché, dualmente, di quelli riservati ad altri.

 

  Lo Stato stesso, nel proibire, si limita di fatto a riservare determinati territori alla malavita organizzata, sia dissuadendo - all’esterno - gli individui da qualsiasi intrusione, sia abdicando - all’interno - a qualsiasi potere normativo;  l’unica norma che applica è esterna: «proibito entrare in questo territorio!».

 

  Ed è pretesa della società degli individui, oggigiorno, rivendicare anche tali “riserve”: regolamentazione dell’uso delle droghe, della pratica della prostituzione, del diritto all’eutanasia o al suicidio, del diritto a una libera procreazione, a una libera sessualità, a nuove forme di costituzione del nucleo familiare, ecc.

 

  Queste invasioni nei territori off-limits della morale avvengono sull’onda di un instaurato dialogo tra le parti: la società degli individui, le istituzioni, i poteri - clericali o laici.

  Dialogo, a sua volta, determinato da un minor differenziale di massa culturale che facilita un flusso bidirezionale di richieste e regole, anziché unidirezionale come una massa culturale inferiore si trova(va) a subire.

 

  In realtà, le esistenti imposizioni etiche si sono sovrapposte a una originaria autonomia etica: lo stacco della mela dall’albero della conoscenza del bene e del male fa sì che, come osserva Paolo Flores d’Arcais (1997, p. 14), «Adamo ed Eva siano non già conoscitori ma creatori del bene e del male»; l’Essere Umano è pertanto autonomo nel determinare il paradigma di valori su cui fondare la propria esistenza;  un’altra mela ….un altro paradigma, commensurabile al primo solo sul piano del “gusto” che egli prova nel cogliere tale mela e non un’altra: una questione estetica, forse più fisiologicamente, alimentare, incurante di un Dio che presenzia ai suoi gesti e “gusti” ….

 

  Dio (Il  Meta-Individuo), a differenza delle filosofie e religioni orientali, non tollera che la sua Creatura pensi da sé, che persegua la Conoscenza; la massa culturale dell’essere creato e dei suoi numerosi discendenti rischia di crescere ed eguagliare quella del Creatore; forse un giorno, la voce che «Dio è morto», che ogni Verità Assoluta è una maschera potrà essere accolta e fatta propria da una massa culturale tale da detonare in questo stato di «singolarità» - dove le attuali conoscenze e norme potranno non reggere più la coesistenza umana -, scaraventando l’Umanità tutta in una nuova dimensione autonoma da leggi divine e priva di finalità esterne al proprio essere (l’Ultra-uomo  nietzscheano, l’essere umano pienamente e naturalmente se stesso).

  Finalità che saranno, invece, interne al proprio essere e non più celate (kalýpto) da finalità esterne dettate e imposte da religioni, ideologie e “persuasori occulti”; inoltre differenziabili, separabili da (apó) queste ultime attraverso uno stato di «singolarità» di paradigmi morali ed esistenziali (così come i «buchi neri» - «singolarità» di leggi spazio-temporali - separano un universo interno da uno esterno): una Apocalisse (dal greco, apokalýpto, svelare il celato), non inteso come la fine e il fine della Storia, bensì come lo stato di conoscenza necessaria per prendere completo e stabile possesso di nuovi territori «oltre la linea», così da svelare una nuova epoca: il passaggio - nella tradizione induista - dal kali-yuga (l’età della guerra e dell’oscuramento, l’attuale, iniziata nel 3102 a.C. con la morte di Krishna) al satya-yuga (l’età aurea).

  L’Eden stesso era già una «singolarità», quella iniziale della nostra epoca; in tale «singolarità» a-morale Adamo ed Eva vivevano senza conoscenza del bene e del male, anzi era l’unica cosa che gli era assolutamente proibita: una pseudo-etica che prescriveva un unico divieto e null’altro:  non dovete conoscere!

 

«Dio è una risposta grossolana, una indelicatezza verso i pensatori - in fondo è solo un grossolano divieto che ci vien fatto: non dovete pensare! … Ben altrimenti mi interessa un problema dal quale dipende la “salvezza dell’umanità” molto più che da qualche curiosità da teologi: il problema dell’alimentazione.» (F. Nietzsche, 1991, p. 33).

 …. Il problema della “mela”?

 

   E allora Dio, compresa la natura dell’essere umano da lui stesso creato («L’uomo tende per sua natura al sapere» - incipit de La Metafisica di Aristotele), espelle la sua creatura dall’Eden e dichiara tale territorio proibito.

  Ma qui, fuori dall’Eden, alcuni esseri umani scoprono ciò che Novalis (Friedrich von Hardenberg) ha splendidamente espresso con «Ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre».

  «Ogni oggetto amato …», quindi qualsiasi cosa, senza preclusioni, limitazioni, proibizioni che un potere qualsiasi possa imporre agli esseri umani.

  Territori off-limits che clero e poteri forti non riconoscono se non come aree di peccato, di oscenità, di degrado morale….

  Territori nei quali gli esseri umani possono rivivere quell’Eden originario con la stessa spensieratezza e a-moralità - rispetto alla morale imposta -, liberi però di determinare esteticamente nonché fisiologicamente un proprio nuovo paradigma esistenziale ed etico a cui riferirsi …..ammesso che sia necessario!

  Infatti, qualsiasi paradigma etico nasce come pragmatismo etico laddove l’eventuale presenza di più esseri umani, con risorse limitate, evidenzi la convenienza a instaurare regole e norme valide per tutti, in quel luogo.

  L’Etica diviene il “luogo” nel quale quegli esseri umani - e solo quelli - si riconoscono reciprocamente, accettando le possibilità ivi ammesse e non altre.

 

  Ma occorre ora analizzare la genesi di questa avventura umana alla ricerca di un “luogo” - di una etica - dove l’umanità possa serenamente «soggiornare» (riprendendo il significato dato da M. Heidegger a éthos: ‘soggiorno’), di un nuovo Eden, meglio: dell’anti-Eden, un Eden con la possibilità di una etica, una etica determinata dagli esseri umani stessi e senza l’unico imperativo presente nell’Eden originario:  non devi conoscere!

 

DIALOGO

 

  Adamo fu il primo, per concessione divina,  a dare un nome a tutti gli esseri viventi: «in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.»  (Genesi, 2, 19).

  Non ci è dato sapere dalla Bibbia che ne è di tutte le altre cose - materia non vivente -, ma è certo che ne hanno preso cura i poeti (dal greco poiêtés, ‘che fa, creatore’) - i creatori di parole : i primi a dare un nome alle cose.

  L’essere umano ha avuto quindi la capacità e l’autorità di creare parole da condividere con un numero sempre crescente di suoi simili, e ha avuto anche modo di capire sulla propria pelle che il vero pericolo non viene dal non comprendere le parole del suo prossimo, bensì dal (com-)prendere la stessa parola in modo diverso, cogliendone quindi solo un senso parziale non più in sintonia cum l’Altro.

  Una Babele di senso più che di parole.

  E proprio a Babele infatti, quando «tutta la terra aveva un medesimo accento e usava le stesse parole» (Genesi, 11, 1), gli esseri umani sperimentarono su di sé tale pericolo con la rovina di quanto da loro costruito: di «una città e una torre con la cima in cielo» e, soprattutto, della propria comunità -«Fabbrichiamoci così un segnacolo di unione, altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra.» (ivi, 11, 4).

  Tale rovina fu scientemente voluta da Dio che colse efficacemente il punto debole “semplicemente” disgregando l’esistente comunità di linguaggio: «Niente li impedirà ormai di condurre a termine tutto quello che hanno in mente di fare.  Orsù dunque, scendiamo e confondiamo quivi il loro accento, in modo che uno non comprenda l’accento del suo vicino.» (ivi, 11, 6-7).

  La comunità non fu pertanto «dispersa sulla faccia di tutta la terra» perché le parole differivano, bensì perché i diversi «accenti» - ossia i diversi sensi dati alle stesse parole - causavano sempre ineluttabili fraintendimenti: la più travolgente forza centrifuga per una comunità umana!

  Da tale «dispersione sulla faccia di tutta la terra» l’umanità è ostinatamente ripartita alla ricerca di una nuova comunità ideale, del proprio paradiso perduto.

  E si sente il bisogno, come in ogni viaggio, di sapere dagli altri viandanti quali siano i sentieri pericolosi, ovvero propizi, di verificare la possibilità di unire gli sforzi accompagnandosi, talvolta con diffidenza …

  Nasce un dialogo variegato con tutti i nostri prossimi che impariamo anche ad amare in questo viaggio verso il nuovo Eden, pur con estrema attenzione alla “revisione” del precetto cristiano: «Insegna il Cristo: amerai il tuo prossimo come te stesso,/ ma non dimenticare mai che è un Altro.» (Antonio Machado).

 

  Con questo Altro noi mettiamo in comune - a differenza degli animali - idee, informazioni e sentimenti attraverso le «prestazioni specificatamente umane del pensiero concettuale e del linguaggio verbale» (K. Lorenz, 1991, p. 280).

  Ma il linguaggio è qualcosa di più di un semplice mezzo: «Il linguaggio è la casa dell’essere e l’uomo abita in questa casa» (M. Heidegger, 1975).

  Gli esseri umani non “possiedono” il Linguaggio più di quanto possiedano il proprio DNA; non posseduto dall’Umanità, il Linguaggio - a sua volta - non possiede quest’ultima, ma la “ospita” in una casa comune.

  Il linguaggio è l’ambiente essenziale  dei pensieri e dei concetti dell’Umanità.

 

  Dalla condivisione di un linguaggio nasce la possibilità del dialogo.

  Dal dialogo nasce la possibilità di condividere un “luogo” di regole, di norme - una etica - capace di identificarsi in un nuovo Eden e, forse un giorno, persino di superare quelle stesse regole e norme sublimandole in un’armonia ristabilita e interiorizzata.

  Dal dialogo nasce la possibilità di condividere consapevolmente nuovi “verbi” o “anti-verbi” - quale la morte di una verità assoluta (il Verbo …) - con una massa sufficiente di esseri umani di livello culturale tale da innescare una reazione a catena a partire da numerose nuove idee individuali, sempre meglio recepite e misurate dagli Altri, con conseguente maggior arricchimento culturale degli individui coinvolti, sempre più capaci di produrre nuove e più elevate idee…. fino alla “deflagrazione” che scoprirà una nuova Umanità - tutta! - pienamente autonoma nel creare da sé valori e nell’interpretare in proprio (ancora lui: l’Ultrauomo nietzscheano).

  Ma l’interpretazione propria e la creazione autonoma di valori costituiscono l’attività più esclusiva degli esseri umani, ontologicamente propria: dare un senso alle cose e a sé, fare senso.

  E’ in ciò che l’Essere Umano (l’«Esser-ci / Dasein» heideggeriano) riconosce la sua essenza; la sua stessa esistenza, in quanto egli ex-siste, consiste nello stare fuori (da Il Nuovo Zingarelli: esistere, da latino exsîstere ‘levarsi (sîstere) fuori (ex-)’) difronte all’Essere che si dis-vela come apertura incondizionata di senso; da questa apertura che lascia intuire un «fondo abissale» di sensi, ciascun Esser-ci attinge un senso, e così facendo lo determina e si determina: il proprio senso che afferma la propria verità (dal greco alétheia la cui etimologia esprime non-nascondimento, dis-velamento).

  Verità che è quindi senso svelato, attinto dal suo nascondimento.

 

   L’ontologia dell’Esser-ci (Dasein) heideggeriano trova il suo contrappunto nell’ontogenesi umana:  dal fondo abissale di sensi qual è il nostro zigote che ci “appartiene” pur rimanendo insondabile dalla nostra coscienza, e che a sua volta trova nel genoma umano un ulteriore fondo abissale di sensi che è patrimonio comune dell’Umanità, si svela ed esce dal suo nascondimento (alétheia) - dal Nulla - l’essere umano, che in tale alétheia trova e al contempo determina la propria verità.

  Il parto è la verità dell’essere umano.

 

  Una volta fuori, ex-sistiamo, e iniziamo ad attingere i possibili sensi della nostra esistenza da quel fondo abissale che da anche nostro diventa, attraverso tutte le fasi dell’ontogenesi, solo nostro;  lo stesso processo di determinazione avviene a livello di ciascun nostro tessuto, cellula, proteina che in ogni istante della nostra vita attinge dal DNA molecolare una informazione, legata al tempo e al contesto, tra le numerose lì presenti, tutte disponibili;  una abbondanza di sensi per tutte le proteine e molecole del nostro corpo che, in funzione dell’istante e del contesto del loro affacciarsi a questa apertura di sensi che è il DNA molecolare, trarranno la loro verità, la loro natura e funzione specifica.

  Konrad Lorenz (1991, p. 124), riprendendo gli studi e la definizione di potenza prospettica di Spemann, sottolinea la assoluta apertura del codice genetico nel quale ogni possibile molecola, proteina, tessuto, organo, funzione è già prospettata/o, ma sarà soltanto il contatto con ciò che gli sta fuori (che gli ex-siste) a determinarne una/o, a trasformare una potenza in atto, a trarre un senso tra i tanti ai quali è aperto;  è quanto dimostrano i più recenti studi di genetica molecolare, nonché la recente clonazione della pecora Dolly (una pecora completa, “rigenerata” partendo da una delle sue innumerevoli cellule già specializzate - una cellula dell’epitelio mammario).

  Sorge spontanea la corrispondenza, più filosofica e cosmologica, con la visione della Realtà dell’Avatamsaka-sútra - testo buddhista del V-VIII sec. d.C. - che insegna la presenza dell’Universo intero in ogni «granellino di polvere», del «tutto in ogni cosa» e di «ogni cosa nel tutto».

  Dal momento della nascita, qualsiasi essere vivente esce dal suo fondo abissale per rimanerne irreversibilmente fuori e in continua, vitale interazione col mondo esterno.

 Ma non a tutti gli esseri viventi accade di sapersi fuori da tale fondo abissale e di ricercare in esso il senso della propria esistenza, la propria verità, la potenza prospettica che includeva anche la possibilità della propria coscienza; all’essere umano nell’aurora di una ridondanza confusa di pensieri accadde ciò, e la sua ricerca si è svolta con le modalità suggerite dal tempo e dal contesto: la venerazione di divinità, lo studio della natura, l’applicazione della Ragione, la ricerca filosofica, la poesia, l’ascolto silenzioso …

 

  La nascita attribuisce a ciascun essere umano la sua unica - seppur dinamica - verità (senso attinto e svelato) che è tutt’uno con il suo corpo, il suo DNA, la sua rete di sinapsi, la sua rete di relazioni col mondo, la sua mente;  a lui il diritto-primo di condividere con Altri la sua verità, ovvero di cercarne insieme una terza o, ancora, di arroccarsi sulla propria.

 

  Sorge ineludibile la domanda su ciò che precede la nascita, e nell’attualissima disputa sullo statuto ontologico dell’embrione è inevitabile - per completezza e coerenza del discorso - un inciso il cui sviluppo è demandato ad altra sede, ma che si riassume nei seguenti capisaldi:

a)    l’embrione è ancora un esperimento di senso che fino al parto potrebbe non ri-uscire, come l’elevatissima percentuale di aborti spontanei sembra dimostrare: l’epistemologico «principio di falsificazione» di K. Popper applicato all’embrione…?

b)   l’embrione ha il diritto di essere o di non-essere; solo l’embrione è ancora in grado di accogliere il consiglio del saggio Sileno al re Mida - così come ci riporta la leggenda greca che F. Nietzsche riprende ne La Nascita della Tragedia (1994, p. 31): «Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto».   Che gli aborti spontanei su citati siano una scelta in tal senso?

c)    l’embrione ha il diritto di vedersi conferito un senso anche dai propri genitori sulla base del loro volerlo, desiderarlo e non solo subirlo come conseguenza indesiderata di un rapporto sessuale (e spero che considerazioni moralistiche a riguardo, da parte di dogmatici e integralisti, non trovino spazio in una questione così importante e decisiva per una piena comprensione degli esseri umani).

  Chiuso l’inciso.

 

   Ciascuna verità e ciascun senso, inscindibili da ciascun essere umano, possono però definire paradigmi  diversi, non sovrapponibili né convergenti in un “luogo” di regole e norme condivise; una non-convergenza di sensi e di paradigmi creerà una massa di individui totalmente amorfa, facile da disgregare o plasmare da parte di qualsiasi meta-individuo, qualsiasi potere, qualsiasi Dio.

   Tale convergenza può invece attuarsi con una etica essenziale, di fatto una “tautologia esistenziale”: l’impegno a garantire in qualsiasi etica un senso che salvaguardi la nostra stessa essenza che è:  fare senso!

  L’etica come condivisione di una «responsabilità totale e congiunta verso il senso e verso l’esistenza» (J.-L. Nancy, 1996,  p. 20).

  Questa responsabilità esige una modalità attraverso la quale attuarsi, modalità che implica necessariamente la presenza e il coinvolgimento degli Altri, con le loro verità, le loro esistenze.

  Questa responsabilità esige il Dialogo.

 

    L’Etica è Dialogo, per considerazione sia negativa, sia positiva:

- senza dialogo non può esserci etica, ossia condivisione di senso - con-senso;

- con il dialogo l’etica ritrova - vedremo - il suo statuto normativo originario tanto caro agli “Antichi”, oggi tanto bistrattato da un certo pensiero troppo debole …

 

  L’etica non può trovare la sua condizione in un principio negativo che prescrive ciò che l’etica non è, come molto correttamente fa la «legge di Hume»: Non è lecito inferire giudizi morali da descrizioni di un dato di fatto;  l’etica quindi non può parlare in termini dimostrativi.

  L’etica richiede oggi un salto coraggioso oltre tutte le limitazioni e le “maschere” fin qui individuate, per impostare nuove norme e regole, “sacre” per gli esseri umani che le creano e le condividono, ma mai più divine!

 

  Nella nostra epoca di «trasvalutazione di tutti i valori» - “ufficialmente” inaugurata da F. Nietzsche il 30 Settembre 1888, a Torino - non dobbiamo permetterci di pensare ai nostri  predecessori  come a degli ingenui.

  La nostra epoca è stata trasformata da una radicale “potatura” in una «modernità senza illusioni» (Zygmunt Bauman), e a noi «post-moderni» (o quasi …) non rimane più alcun «meta-racconto» - dottrina globale della nostra Realtà - (Jean-Francoise Lyotard), pur così amati dai nostri padri ….

  Forse servivano ….. forse i nostri padri non erano pienamente coscienti della loro natura di mezzo piuttosto che di fine (non avviene forse lo stesso per gli individui consumistici del XX sec.?!), ma certamente ne apprezzavano i riscontri esistenziali quando, ovviamente, vissuti e interpretati correttamente.

 

  Ora: nella società post-moderna è esplosa la diffusione del homo democraticus di Tocqueville, da questi ben analizzato agli albori della società democratica; gli individui facenti parte di questa specie presente in tutti i Paesi democratici occidentali, dove più si è dispiegata «l’enorme potenza del niente» (E. Jünger) - il nichilismo, ricevono dal momento della nascita (o quasi …) un corredo di diritti indefettibili:  diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e diritto al voto.

  Certo, i diritti a una piena autonomia in merito alla propria sessualità, alla propria morte (suicidio/eutanasia) e alle proprie concezioni di famiglia e di procreazione sono ancora pregiudicati da persistenti dogmatismi religiosi, che da sempre si sono arrogati un’autorità assoluta, rivendicando invece a Dio la proprietà assoluta, su tutto quanto concerne la vita - ‘donata da Dio’ - nei suoi vari aspetti (procreazione, sessualità, morte):  un dono che rimane di proprietà del donatore!

 

  Ma quei diritti universali già conquistati, e quelli che si conquisteranno, sono veramente tali nella loro sostanza?   Cosa c’è dietro la maschera ideologica - quella democratica  - che li ha con titanici sforzi sottratti alla loro situazione opposta di privilegio aprioristico di casta, di sangue?

  Dopo le successive rivoluzioni che hanno portato tali diritti dall’ambito del privilegio (aristocratico) all’ambito del merito (borghese) all’ambito, infine, universale (basta nascere.  …basterà essere concepito?), è doveroso oggi chiederci quale sia la vera natura di tali diritti per poter comprendere le condizioni del loro futuro progresso, e dualmente del loro possibile degrado.

 

  L’osservazione-prima, “tautologica” , è che per poter Dire o Votare è necessario ….aver qualcosa da dire o votare!

  Non c’è bisogno di continuare a ricordare i bassi livelli di partecipazione al voto nelle democrazie attuali (per arrivare all’astensione in massa da consultazioni referendarie) quando si apprende che tale aspetto è già evidenziato nel 1879 da F. Nietzsche, che ne Il Viandante e la sua Ombra (1990, n. 276, p. 401) scrive a proposito del suffragio universale: «Se infatti, nei casi in cui se ne fa uso, alle urne vanno appena i due terzi, e forse anzi nemmeno la maggioranza degli aventi diritto al voto, questo è in genere un voto contro l’intero sistema di votazione.»

Pertanto: «Il popolo (…) in ogni caso ha il diritto di restituire il suffragio universale qualora esso non soddisfi le sue speranze. E ciò sembra verificarsi dappertutto.» (ibidem)

  La conclusione ineludible di queste osservazioni - sempre in merito al suffragio universale - è che «ogni volta che lo si adopera bisogna prima dimostrare, secondo la forma di partecipazione, che esso ancora continua a esistere di diritto.» (ibidem).

 

  E’ ora quindi di dare anche dei doveri a questo homo democraticus!  Doveri che regolino quegli stessi diritti considerati assoluti nella peggiore accezione che tale termine abbia, ossia indipendenti  dal contenuto e dagli Altri.

 

  Arrivare - per overshoot di un brusco cambiamento, meglio: di una rivoluzione - a rendere assoluti i diritti su citati non rafforza de facto tali diritti faticosamente conquistati, ma li degrada a mero esercizio di un nuovo potere, svuotati della loro “tautologica” essenza: avere-qualcosa-da-dire-votare.

  Ma qui ci imbattiamo nel problema della definizione e comprensione di tale ‘qualcosa’: come possiamo valutare chi ha qualcosa su cui poter esercitare realmente i propri diritti, non più universali per nascita, bensì universali per contenuto ?

  Perché il diritto attribuito dalla nascita «continui a esistere di diritto» occorre dimostrarne l’applicazione su un contenuto.

  Dimostrare l’esistenza di un contenuto - non del suo valore - anzitutto  ad altri da noi.

  Dimostrazione ad altri possibile solo attraverso il dialogo.

  Dialogo possibile solo sulla base di regole linguistiche e logico-filosofiche condivise.

  Regole che siamo noi esseri umani a definire, cogliendo le “mele” che più ci aggradano in base al nostro “gusto”, alle nostre esperienze, ai nostri studi filosofici sulla natura del linguaggio, ai nostri studi di scienze cognitive sui  limiti e vincoli del dialogo stesso, ecc. ecc.

 

  Per questa via giunge anche una ricaduta (fall-out) degli studi filosofici sugli individui non partecipi direttamente di tali studi; ciò non in forma di altisonanti principi che forse tutti condividono già (tolleranza, rispetto, non violenza, ecc.), o di esoteriche formulazioni, bensì nella forma di regole e norme - semplici e pratiche - “distillate” dalle ricerche scientifico-filosofiche, così come le singole norme del  codice civile sono derivate da principi giuridici più generali.

  Una nuova etica quindi, consapevolmente “finita” e “debole” (non assoluta), “estetica” e “fisiologica” (non divina, bensì umana), che risponda a esigenze quotidiane di coesistenza tra individui sulla base dei loro gusti e bisogni, delle loro esperienze e ricerche, dei loro sensi, valida fintantoché non sia popperianamente «falsificata» da nuove esperienze o bisogni che modifichino “l’intersezione” dei sensi in un nuovo luogo - etico - di con-senso.

 

  Un «consenso per intersezione» (John Rawls) che necessita di un «punto di vista morale (…) indipendente dalle diverse concezioni del mondo» (Jürgen Habermas, 1996, p.130) intorno al quale catalizzare la disponibilità degli interlocutori a cercare e sancire un “comune denominatore” delle loro norme.

  Un consenso per il quale l’«assunzione ideale di ruolo» suggerito da Jürgen Habermas (1995, p.35) può essere più un punto di arrivo (ideale) che un punto di partenza; secondo J. Habermas, «ognuno è tenuto a mettersi nella prospettiva, e quindi a immedesimarsi nella comprensione di sé e del mondo, di tutti gli altri. Da questo intrecciarsi di prospettive si costruisce una prospettiva-noi idealmente allargata, dalla quale tutti possono esaminare insieme se vogliono rendere una norma controversa fondamento della loro prassi.» (ibidem)

  Tale presupposto della sua «teoria dell’agire comunicativo» solleva alcune questioni.

  Primo. «Mettersi nella prospettiva di tutti gli altri» potrebbe essere un esercizio doppiamente pernicioso: da una parte illuderci di essere in tali (e tante) prospettive altrui mentre, più plausibilmente, le stiamo interpretando e distorcendo con la nostra ineludibile prospettiva;  dall’altra è significativo il rischio di perdere efficacia nel comunicare la nostra prospettiva, preziosa per qualsiasi dialogo proprio perché diversa, forse unica.

  Secondo. «Una prospettiva-noi idealmente allargata» potrebbe essere una meta impossibile; vale più la pena, quindi,  di cercare un consenso-noi, un «punto di vista morale» più originario, più essenziale alla natura degli esseri umani che, invece, crei le premesse necessarie - non sufficienti - per un successivo raggiungimento di una ipotetica prospettiva-noi.

 

  Un «punto di vista morale» originario ed essenziale perseguibile sul piano della maggiore scoperta del nostro secolo: la consapevolezza di una comune dimora degli esseri umani:  il Linguaggio.

  Questa comune casa che ospita - non posseduta - tutti gli esseri umani è stata “dissotterrata” da numerosi strati di ignoranza e di modelli culturali superficiali grazie agli studi in ambito etologico (Konrad Lorenz: il linguaggio verbale quale peculiarità dell’umanità rispetto agli animali), in campo linguistico (Noam Chomsky: dimostrazione delle comunanze sintattiche tra le numerose lingue utilizzate dagli esseri umani), in campo filosofico (Gottlob Frege, Rudolf Carnap, Ludwig Wittgenstein: verifica delle regole universali di significatività e di correttezza delle asserzioni) e nel campo delle scienze cognitive (Dan Sperber e Deidre Wilson: «principio di pertinenza», un principio di efficienza cognitiva che spiega il successo nella diffusione - «contagio» - di idee, rappresentazioni mentali o miti).

 

  Ma rimanere in una logica di con-senso per semplice «intersezione » di sensi, prospettive, norme è sia nella realtà dei fatti, sia a livello gnoseologico molto limitativo e mortificante per la vera potenzialità del dialogo.

  Se dia-logo riprende il significato originario di lógos, quindi “raccogliere”, “accogliere” ciò che si manifesta “tra” (dia-) interlocutori, allora il dialogo è proprio un accogliere i pensieri - trasmessi dalle parole - di più persone, e, soprattutto, un raccogliere i “frutti” - nuovi e impensati - che “l’innesto” di più pensieri e idee rendono manifesti.

  La vera prospettiva del dialogo è pertanto di rendere manifesto un con-senso non solo sulla base dei sensi e delle prospettive già pensate ed esistenti, bensì anche e soprattutto grazie a prospettive e sensi nuovi e impensati - i “frutti” più preziosi del dia-logo.

  Il dialogo come giardino dei frutti impensati.

 

  «L’Uomo è ciò che dialoga» - parafrasando L. Feuerbach;  una capacità di base - ontologica - degli esseri umani che può però elevarsi a livelli ben diversi in funzione sia del contenuto da esprimere (quando presente …), sia della conoscenza e applicazione di regole e principi sui quali il dialogo stesso si basa.

 

  Tutti s’imbattono giornalmente al lavoro, in casa, nei dibattiti pubblici in individui che ribadiscono il proprio «diritto di dire ciò che pensano» senza preoccuparsi minimamente dell’eventuale esistenza di doveri sul come dirlo.

  L’uso di termini che non si sanno definire o il cui significato risulta diverso per gli interlocutori; la noncuranza della consequenzialità della risposta alla domanda fatta; la scarsa, o nulla, pertinenza di un commento a uno precedente; l’utilizzo di concetti analoghi - persino in contesti diversi! - per dimostrare la validità di pensieri e affermazioni altrimenti troppo deboli; l’utilizzo equivalente di «tipi logici» diversi (illuminante la discrasia di ‘Operaio’ e ‘Classe Operaia’ alla base di alcune confusioni marxiane evidenziate da G. Bateson in Mente e Natura, 1988, p. 65); l’appello all’Esperto - considerato infallibile! - quando le proprie argomentazioni languono …; modificare un aspetto, un parametro - quello che non ci piace, ovviamente … - di una questione, lasciando ogni altra cosa costante; l’atteggiamento “manicheo” per cui si concepiscono solo gli improbabili estremi di una questione - o tutto o niente! o bianco o nero!  (con tutti i colori che ci sono …) : tutto ciò costituisce un piccolissimo campione delle “scorrettezze” dialettiche che si riscontrano continuamente e nella massima non-curanza, a causa di una educazione scolastica nulla (sic!) su tali principi, regole e metodologie; al massimo si arriva a evidenziare stonature quali la mancanza del soggetto - caro all’analisi logica - o l’uso errato del congiuntivo - caro alla grammatica …

  Ben più arduo è far intendere che - piccolo esempio che definirei quotidiano, e parafrasato in numerosi altri contesti - chi è intollerante verso gli intolleranti, non è egli stesso necessariamente un intollerante …  (una confusione lessicale e logica che rende spesso arduo un vero dialogo tra laici e dogmatici !).

 

  Non a caso L. Wittgenstein aveva individuato uno degli scopi fondamentali della filosofia nell’aiutarci a sviluppare la capacità di fare le domande giuste, evitando di girare a vuoto intorno a falsi problemi o a questioni mal poste:  non è cosa da poco!

 

  Occorre innanzitutto creare un orecchio per le stonature logico/dialettiche, così come già avviene per la musica e per la grammatica ….

  Eppure sarebbe semplice ed efficace presentare già a Scuola “scorrettezze” quali quelle su citate come reali e - perché no? - immorali, offensive per il proprio interlocutore e … per la propria “intelligenza”!  Con ciò il proprio orecchio verrà sicuramente stimolato a diventare anche “dialettico”!

  Un tale orecchio si dimostrerà anche più sensibile al significato che all’eloquio.

  Perché questo processo educativo si avvii e, soprattutto, si sviluppi, occorre esporre gli individui alla continua verifica del contenuto delle loro affermazioni e scelte - pena la rinuncia al diritto di affermare e scegliere … -, infrangendo la “campana di vetro” - illusoria! - dei diritti universali dalla nascita («diritto di parola» e «diritto di voto»), sotto la quale si trincerano ottusità, arroganza, rifiuto al dialogo.

  Tale verifica del contenuto può avvenire solo accettando che l’Altro sottoponga le nostre affermazioni e scelte a un processo - ben noto in epistemologia - di «falsificazione» (avere la possibilità di verificare la scorrettezza - «falsità» - di un’affermazione, di una scelta, di un’opinione, di una teoria, ecc. sulla base di “regole del gioco”, norme condivise).  Tale processo richiederà una etica normativa a cui appellarsi, consapevolmente finita e reversibile, dove le regole semplici e comprensibili a tutti sono limitate alla casa comune, al linguaggio, al dialogo - corretto, pertinente e significativo, proprio in funzione di tali regole.

 

    Una prima conseguenza della rinuncia alla “campana di vetro” dei diritti universali dalla nascita - le ultime illusioni dei “quasi-post-moderni” (!) - è la riduzione della violenza - verbale o fisica - che puntualmente trascende qualsiasi confronto tra individui quando entrambi si convincono in buona fede della “scorrettezza” dell’Altro; peccato che spessissimo entrambi siano in buona fede sulla propria accezione di un termine, di un concetto o sull’uso di una metodologia logico-discorsiva!

  Anche la relazione studiata da René Girard tra «Violenza e Sacro», tra Potere e «capro espiatorio» viene smascherata dal vero dialogo con la sua potenza evocatrice del contenuto, del senso più profondo, strappando così via la maschera ingannatrice dei riti e delle morali tramandate.

  Il dialogo e-voca il sentimento del rispetto del prossimo, accoglie quella “voce” che già l’affine sentimento della tolleranza smorza dall’alto del suo superiore e remoto distacco.

  Il dialogo non si può imporre né forzare con violenza né condurre sotto minaccia; il dialogo inoltre non può scorrere tra livelli distaccati di senso, con quello superiore che tollera quello - presunto - inferiore.

  Il dialogo avviene solo col con-senso reciproco ad assoggettare le proprie affermazioni e scelte - tutte! - agli altrui tentativi di «falsificazione», secondo i criteri e le norme che ci si è dati; chi rifiuta questo con-senso essenziale rifiuta il luogo di coesistenza, la casa comune.

 

  Questo consenso essenziale va salvaguardato dagli inevitabili pericoli di incomprensione e fraintendimento in buona fede, sempre - per principio - colpa di entrambi!

  La valutazione della correttezza dialogica propria e dell’interlocutore, a livello non specialistico, non può che avvenire sul riscontro di regole semplici e pratiche, come insegna la morale tradizionale - normativa - che accompagna l’umanità da millenni.

  Le regole di tale dialogo corretto e pertinente devono essere date dai filosofi del linguaggio (studiosi di ontologia, linguistica, scienze cognitive, ecc.) che attueranno così un legame più diretto con la società, creando un loop positivo, un circolo virtuoso  molto più serrato tra le teorie del linguaggio, le loro verifiche empiriche nella società stessa, gli stimoli alla ricerca forniti da quest’ultima e, di ritorno, le correzioni e gli affinamenti delle teorie in esame.

  La ricaduta dei risultati delle ricerche filosofiche (fall-out filosofico) sarà pertanto più celere, con conseguente innesco di un circolo virtuoso tra crescita culturale dei singoli individui, loro maggiori apporti personali alla ricerca filosofica, nuove idee e conoscenze raggiunte, ulteriori ricadute sulla società.

 

  Il punto di partenza per tale processo non sarà quindi in un nuovo «Codice Civile - Del Dialogo», bensì nella Scuola con l’insegnamento dell’esistenza (sarebbe già un vero, irreversibile progresso!)  sia di regole e regoline che aiutino a «fare le domande giuste, evitando di girare a vuoto intorno a falsi problemi o a questioni mal poste», sia di criteri per valutare i contenuti e il significato delle asserzioni, nonché il loro grado di condivisione con gli Altri.

 

NORME

 

  Una nuova “oggettività”  dell’etica?  Il Bene e il Male esistono realmente e concretamente?

  Sì, in quanto nel  cogliere la “mela” dall’albero della conoscenza, «è solo l’uomo a  decidere cosa sia il male, ma con tale decisione lo crea, in senso pieno. Poi, il male esiste.  (…) A quel punto il male c’è, costituisce la struttura del reale …» (P. Flores d’Arcais, 1997, p. 18).

  Da ciò deriva un pragmatismo etico quale sinteticamente espresso da P. Flores d’Arcais: «Un qualsiasi dover-essere, purché funzioni. » (ivi, p. 12).

  Sì, ma senza le illusioni dei meta-racconti, delle dottrine globali, di un Dio fondatore della morale;  soltanto, invece, con il “gusto” di convivere con il “Tu”, con gli Altri sulla base di norme (dover-essere) che dobbiamo scegliere in quanto esseri umani con una dotazione di «programmi aperti sui quali si fonda ogni nostra capacità di apprendimento e di adattamento» (K. Lorenz, 1991, p. 120), a differenza degli animali costituti soltanto da una dotazione originaria di istinti rigidi (programmi genetici non aperti).

  Sì, poiché nella casa comune è deterministicamente correlato il rifiuto del dialogo con la rovina della casa stessa; qui, il male si arriva a “toccarlo”!

 

 L’esistenza umana è pertanto normativa:  gli esseri umani necessitano di e creano dei dover-essere capaci di ricostituire quella comunità ideale dispersa dalla confusione linguistica ingenerata da Dio (Genesi, 11, 6-7), sognando un anti-Eden, un Eden con la possibilità di una etica, una etica determinata dagli esseri umani stessi e, soprattutto, senza quell’unico imperativo presente nell’Eden originario:  non devi conoscere!

 

  Ma una etica nel dialogo; perché qualsiasi etica fuori del dialogo, che implichi un Bene e un Male indipendenti dalla modalità della loro espressione e condivisione con gli Altri, impedirà sempre un vero dialogo, essendo sempre pronto a trascenderlo in una comunicazione unidirezionale, in un comando, in un «comandamento» in nome del Bene venerato e del Male temuto.

       

 

  Chi abbia in testa rigidi schemi predefiniti di bene e male non potrà dialogare con i suoi prossimi e r-accogliere tutti i possibili frutti che il dialogo umano produrrebbe: si fermerà prima, inginocchiato davanti al suo Bene (o Male) e alle proprie Verità.

 

  Ecco chiarito tutto il senso dell’aforisma di Blaise Pascal - «Prendersi gioco della filosofia è fare davvero filosofia» -  dal quale emerge non solo la desacralizzazione della filosofia stessa - tanto ovvio quanto limitativo, ma, ancora più, la sua essenza:  creare dialogo, fare dialogo.

  E’ solo dal continuo «prendersi gioco della filosofia», delle proprie e altrui idee che si ottiene il risultato «Uno e Bino ….» (!) di:

a)    non farsi abbagliare dallo «splendore della Verità»  - come invece suggerisce l’enciclica «Veritatis splendor» del 1993;

b)   r-accogliere sempre i pensieri del prossimo - anziché tollerarli con superiore distacco o, peggio, abbandonarli sdegnosamente al vento - per ritornarglieli persino “caricaturati”, evidenziando le disarmonie e gli aspetti che il nostro “gusto” non gradisce.

  Entrambi tali risultati assicurano, a loro volta, il fondamentale risultato di un continuo dialogo.

  La filosofia come motore del dialogo.

 

  Se quindi risulta incapace di dialogo chi è “ingabbiato” in rigidi schemi di bene e male, risulta altresì evidente chi invece ne sarebbe pienamente capace: chi non è ingabbiato, chi è libero di creare e interpretare opinioni in virtù della propria unica natura, senza condizionamenti esterni - chi «conosce se stesso»!

  Chi non «conosce se stesso», incapace quindi di appellarsi al proprio senso, alle proprie verità interne, conoscendo solo quelle esterne derivanti da educazione, cultura, «Super-Ego», dovrà ridursi a vari succedanei del dialogare: chiacchierare, raccontarsi - al limite del monologo … - discutere, litigare…..

 

  Rimossi quindi tutti gli schemi aprioristici e assoluti di bene e male, l’unico concetto di  “torto”, di “scorrettezza” - di male - esiste soltanto al di fuori delle regole dialogiche che ci siamo dati, e tanto maggiore sarà tale torto o scorrettezza quanto più esteso è il consenso sulle regole violate; questa gradualità del torto viene incontro a esigenze di una etica non manichea, non integralista.

 

 Violare regole sintattiche, logiche o principi dialogici non comporta violazioni del codice civile, però incontra il giudizio negativo degli Altri coi quali si dialoga, coi quali si con-vive; il “costo” di tali violazioni diventa la perdita della disponibilità al dialogo da parte dei nostri prossimi, per giungere nelle forme più reiterate al disprezzo o alla derisione.

  E’ vissuto da tutti quotidianamente lo spettacolo di tanti “furbi” che giocano sulla mancanza di un orecchio diffuso per le norme dialettiche, “barando” nelle discussioni con affermazioni infettate da qualcuna delle scorrettezze precedentemente menzionate - tanto, sanno che spesso riusciranno a confondere l’interlocutore, o comunque a farla franca;  gli stessi che non oserebbero cantare in un oratorio perché l’orecchio musicale  comune - educato in misura sufficiente - individuerebbe subito chi va messo fuori dal coro

  Quando poi vengono accusati di dialogare scorrettamente (magari anche inconsapevolmente), allora le classiche repliche sono disarmanti e scagionano da qualsiasi “condanna”: «non hai il diritto di imporre la tua logica!», «ho il diritto di esprimere il mio pensiero!»;  quanto ai doveri sul come esprimerlo …..

“Condanne” invece tanto più efficaci quanto più le norme dialettiche violate sono note e condivise dalla comunità dei possibili interlocutori.

 

  E sulla mancanza di tale orecchio si basano anche alcuni stratagemmi del brillante saggio L’Arte di ottenere ragione di Arthur Schopenhauer: per «introdurre obiezioni non valide, della cui invalidità si accorge però solo l’esperto e non i presenti» (1993, p. 30, stratagemma 28), o per «presentare tesi paradossali», «è necessario avere la massima impertinenza, ma in pratica questo si verifica spesso: ci sono persone che eseguono tutto ciò istintivamente»…! (ivi, p. 24, str. 15).

 

  I nuovi “giudici” di tali violazioni saranno filosofi del linguaggio, studiosi di dialettica, di linguistica, di logica che dovranno istruire, controllare e correggere i processi comunicativi nella scuola, nelle aziende, nei mass media con l’obiettivo di garantire la massima correttezza ed efficacia delle comunicazioni, del dialogo.

 

  Rimane però una domanda: come si è giunti a possedere orecchi adatti all’ascolto musicale e all’uso della lingua locale parlata, mentre è così manifesta la mancanza di un orecchio altrettanto sensibile al corretto dialogo?

  Non certo perché nei primi si “elaborano” essenzialmente suoni, mentre nel secondo soltanto concetti e strutture mentali; altrimenti discrasie simili a quelle precedentemente riportate («essere intollerante verso …/ essere un intollerante »;  «Operaio / Classe Operaia») dovrebbero saltare subito proprio all’orecchio per la loro struttura assolutamente evidente e ripetitiva; analogamente strutture grammaticali articolate dovrebbero essere “di competenza” più dei processi razionali che del nostro “filtro” acustico che, invece, le coglie efficacemente.

  Non certo perché le analisi logico-filosofiche hanno prodotto nuove conoscenze che sono troppo recenti per essere assorbite dalla società; altrimenti non si capirebbe l’immediato assorbimento da parte della stessa società di vere “rivoluzioni” musicali in questo secolo, oppure di nuove lingue parlate (dai dialetti, alla lingua “ufficiale”, alle lingue straniere).

  Non certo per una questione di complessità o di difficoltà ad apprendere le regole del dialogo corretto;  non ci si preoccupa qui tanto della scarsa conoscenza della logica modale o dell’«antinomia di Russell» quanto delle evidenti contraddizioni e dei falsi percorsi nei quali cadono frequentemente i discorsi, per ignoranza di fondamentali e semplici criteri di logica (individuati da Aristotele!), di «definizione operativa» (essere in grado di definire con esempi concreti un termine usato - punto di partenza addirittura della revisione einsteiniana dei concetti di spazio e tempo all’inizio di questo secolo), di distinzione tra contesti diversi (nelle quali potrebbero anche valere condizioni diverse …), di validità delle sempre abusate e ingannevoli analogie (spesso utilizzate come veri e propri “strumenti” dimostrativi).

  E l’elenco potrebbe continuare a lungo senza elevarci dal livello degli errori-orrori  più elementari…

  Insomma: la reale differenza tra l’orecchio dialogico e quello musicale o linguistico è che il primo non è stato (quasi) mai usato!

 Dapprima, le Verità e i Dogmi svuotavano gli individui di ogni “contenuto” alternativo, rendendo vuoto il dialogo, quindi impossibile; raccontare, chiacchierare, discutere:  questo sì!  Ma dialogare, raccogliere idee e conoscenze nuove dall’innesto di quelle che gli individui già conoscevano ed esprimevano … - perché mai, se già tutto è conosciuto da qualcuno (sacerdoti, prìncipi)?  - e quanta presunzione in questo volersi confrontare con tali autorità (qui ci mettiamo anche certi scienziati…)!

   Poi, i Diritti precedentemente citati hanno reso l’espressione del pensiero e il voto di ciascun homo democraticus indipendente dagli Altri, ossia non «falsificabile»!

  Da un opposto all’altro!

  Al di là di coloro che praticano lo studio dei principi e delle norme dialogiche per scopi molto pragmatici (persuadere altri o difendersi in campo politico, economico, ecc.), la società nel suo insieme non sente né il bisogno né l’utilità né, tanto meno, il piacere di coltivare tale disciplina (come ben espresso dalla locuzione americana: «It doesn’t pay! » - non mi rende niente!).

  Purtroppo, ciò è effettivamente coerente con le esigenze della vita quotidiana…

  L’unica alternativa è di riformulare una etica insegnata a scuola e praticata negli ambienti lavorativi, che riveli il bisogno e l’utilità (e il piacere …) di regole e principi dialogici per migliorare le condizioni di coesistenza umana, l’efficienza e l’innovazione aziendale, l’interscambio culturale nelle società multi-etniche, la comprensione tra genitori e figli …

 

  Esiste pertanto la necessità di un raccordo tra  le vecchie norme abbandonate - divine, assolute - e nuove norme - umane, finite;  non è sufficiente fermarsi al primo passo, pur  necessario, di indebolire fino all’annichilimento l’etica tradizionale - normativa, rimanendo in una posizione di stallo qual è quella della legge di Hume; è necessario ora compiere un salto deciso «oltre la linea» per completare e superare il processo nichilistico, con quel «nichilismo eroico» proprio di E. Jünger, ed entrare appieno nel suo “territorio” consapevoli del valore finito di qualsiasi nostro dover-essere, delle nostre norme e delle nostre etiche - ma senza per questo rinunciarvi.

 

PROPOSTA

 

  La natura e il ruolo dell’etica nelle comunità di esseri umani, così come compresi dalle analisi filosofiche di questo secolo, sono ben lungi dall’essere stati assorbiti dalla cultura quotidiana - nelle nostre aziende e scuole;  ma qui si combatte anche una battaglia contro la Etica che ogni popolazione riceve dalla propria tradizione religiosa.

  Ben più colpevole e dannoso è il ritardo nel recepire pienamente la natura e il ruolo del Linguaggio, del Dialogo negli stessi ambiti appena citati:  scuola e azienda.

  Soprattutto le aziende, pur consapevoli dell’importanza della comunicazione nei suoi vari aspetti, dimenticano l’essenziale preoccupazione di L. Wittgenstein - propria della filosofia - che vale la pena di ripetere: sviluppare la capacità di fare le domande giuste, evitando di girare a vuoto intorno a falsi problemi o a questioni mal poste.

  In esse nessun responsabile competente è incaricato dello sviluppo e controllo di tale capacità, sulla base della presunzione che quanto più elevato il livello gerarchico tanto maggiore la capacità appena citata …

  Nelle stesse aziende che definiscono responsabilità e controlli per tutti i processi - produzione, gestione finanziaria, approvvigionamenti, analisi della qualità, marketing, vendite ecc. -, i processi comunicativi, invece,  sono lasciati letteralmente fuori controllo.

  Chiunque assista a riunioni aziendali noterà come le analogie - utili per chiarire concetti ostici - assumano magicamente valore dimostrativo, come uno stesso caso venga disinvoltamente citato in contesti diversi ove esso non rappresenta più un caso, come fraintendimenti terminologici portino a lunghe discussioni e come falsi problemi tengano banco in virtù di questi (e altri) errori dialettici.

  Si arriva infine a livelli tragicomici quando tali riunioni avvengono tra appartenenti a lingue e culture diverse ….

 

  Ma, ben al di là di questioni di efficienza, il dialogo corretto e pertinente è il vero motore delle nuove idee e della creatività, assolutamente vitali nelle aziende che affrontano quotidianamente la risoluzione di svariati problemi e … la creazione di nuovi (innovazioni di prodotto e di processo)!

  Riprendendo l’etimologia - precedentemente ricordata - di dia-logo, esso è proprio il terreno sul quale si r-accolgono le idee di più persone, e soprattutto si raccoglie (lógos) ciò che si manifesta come nuovo tra (dia) le stesse; più che articolate sessioni di brainstorming, è il dialogo il brainstorming per eccellenza!  … purché controllato, regolato da norme adattabili ai diversi contesti, ma comunque e sempre condivise.

  E’ questa reciproca volontà di accogliere i pensieri dell’interlocutore come “passi” necessariamente alternati ai nostri - per percorrere con maggiori risultati e sicurezza nuovi sentieri - che fa il dialogo piuttosto che una semplice chiacchierata inaridita da un raccontarsi senza curarsi dell’Altro, costretto quindi più a inseguire che a “passeggiare” insieme.

  E’ solo col dialogo che più persone possono “incamminarsi” nel territorio di un problema, e passo dopo passo, pensiero dopo pensiero accogliere le nuove idee che si manifestano, senza precisi e rigidi schemi predefiniti (coi quali non si scopre mai nulla di nuovo!), bensì solo con la volontà di dialogare insieme, imprescindibile dalla preventiva determinazione di “regole del gioco” dialettiche condivise.

 

  Sarebbe già questa considerazione sufficiente a illuminare i danni aziendali arrecati da managers accentratori o molto autoritari che atrofizzano potenziali capacità creative e innovative - imprescindibili da un dialogo continuativo - a causa delle loro presunte persistenti “ispirazioni” …

 

   Tornando a un livello più generale della questione, si imputa spesso alle varie lingue parlate la responsabilità di una scarsa comunicazione tra le genti (o nelle tragicomiche riunioni aziendali su citate…), arrivando a vaneggiare la creazione di una lingua parlata artificiale comune (l’Esperanto insegna….).

  La molteplicità delle lingue parlate rappresenta in realtà il ‘velo di Maya’ che copre quella unità di fondo rappresentata dalla natura e dalle strutture essenziali del linguaggio verbale umano.

  Per squarciare tale “velo” è necessario accompagnare, nelle scuole, le esistenti lezioni di Italiano e Lingue straniere con - ma ben distinte da queste - lezioni di Linguaggio e Dialettica - se si preferisce, di Dialogo; quando possibile, tali lezioni dovrebbero essere curate da docenti di Filosofia.

 Lezioni, in tutti gli ordini scolastici, che evidenzino gli aspetti linguistici, logici, analitici peculiari degli esseri umani a prescindere dalle diverse culture e lingue, contribuendo a creare una cultura di comunanza delle culture, una casa comune.

  Il programma-base di tali lezioni contemplerà princìpi e metodologie - graduati in funzione del livello scolastico - di analisi logica, di strutture linguistiche fondamentali (individuate da N. Chomsky e applicate anche ai linguaggi di programmazione), di logica formale e modale, di modalità di comunicazione e trasmissione delle informazioni (dagli studi di G. Bateson alle più recenti considerazioni della moderna scienza cognitiva); il tutto valido per il tempo necessario a essere «falsificato»  da nuove conoscenze.

  Lo stesso programma-base, proprio perché essenzialmente universale, potrà essere esteso ad altri Paesi, Culture in un interscambio vivo di esperienze, suggerimenti e continue evoluzioni, sempre però secondo il paradigma della comunanza e universalità delle regole dialettiche e logico-filosofiche.

  La Scuola può dare il “la” a questo nuovo ecumenismo per definire l’abitabilità di una nuova casa comune, così come l’etimologia ci ricorda (Il Nuovo Zingarelli recita: dal latino oecúmene, dal greco oikouménê, letteralmente ‘abitata’  - dal verbo oikêin ‘abitare’, da ôikos ‘casa, abitazione’).

  Ecumenismo del dialogo, del linguaggio e delle relative norme e regole.

 

  Infine, come considerazione pro-vocatrice, questa nuova cultura del dialogo renderà evidente l’anacronismo di una ‘X’ sulla scheda elettorale, appena tollerabile in una società affetta da analfabetismo diffuso: che sia dovere del cittadino che chiede il diritto di votare degnarsi almeno di esprimere un contenuto - senza entrare nel merito - della sua scelta: una motivazione, un sentimento ….qualcosa!

  Qualcosa che però non dimostri un contenuto anti-democratico che la maggioranza potrebbe benissimo esprimere in situazioni esasperate (la storia anche recente ce ne fornisce drammatica esperienza!).

  Qualcosa che però non sia «me l’ha detto il prete / il genitore / l’insegnante / …».

 

  Richiamando ancora lo slogan cristiano che tanto successo ha procurato alla Chiesa di Cristo nei duemila anni trascorsi:  Ama il tuo prossimo come te stesso - dialoga con lui.

 

 

OPERE CITATE

 

La Parola di Dio - La Bibbia, trad. it. di F. Nardoni, Firenze: Libreria Editrice Fiorentina (1960) 

G. Bateson (1988  4a ed.),  Mente e Natura, trad. it. di G. Longo, Milano: Adelphi.

P.  Flores d’Arcais (1997), Etica del finito  in  MicroMega, Almanacco di Filosofia ’97, Roma:

Editrice Periodici Culturali.

U. Galimberti (1989  2a ed.), Invito al pensiero di Heidegger, Milano: Mursia.

J.  Habermas (1995), Per la critica del liberalismo politico di John Rawls, trad. it. di A. Ferrara, in

      MicroMega, Almanacco di Filosofia ’96, Roma: Editrice Periodici Culturali.

J.  Habermas (1996), L’insostenibile contingenza della giustizia, trad. it. di A. Ferrara, in

     MicroMega 5/96, Roma: Editrice Periodici Culturali.

M. Heidegger  (1975), Lettera sull’Umanismo, trad. it. di A. Bixio e G. Vattimo, Torino: S.E.I.

E.  Jünger - M. Heidegger (1995  4a ed.),  Oltre la Linea, a cura di F. Volpi, trad. it. di A. La Rocca e 

F. Volpi, Milano: Adelphi.

K.  Lorenz (1991), L’altra faccia dello specchio , trad. it. di C. Beltramo Ceppi, Milano: Adelphi.

J.-L. Nancy (1996), «L’etica  originaria»  di Heidegger, a cura di A. Moscati, Napoli: Cronopio

F.  Nietzsche (1994  15a ed.), La Nascita della Tragedia, nota introduttiva di G. Colli, versione di S. Giametta,  Milano: Adelphi.

F.  Nietzsche (1991  11a ed.), Ecce Homo, a cura e con un saggio di R. Calasso, Milano: Adelphi.

F.    Nietzsche (1990), «Il Viandante e la sua Ombra» in Umano troppo Umano, trad. it. di M. Ulivieri,

      con introduzione di G. Maria Bertin, Roma: Newton Compton.

A.   Schopenhauer (1993), L’Arte di ottenere ragione, trad. it. di R. Margot Beitat, Ed. Meravigli

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